La maggior parte delle geishe erano belle figlie di contadini.
Questi, non avendo di che sfamarsi, le vendevano alle “okiya”, case gestite da sole geisha.
La “madre” (okasan) proprietaria dell’okiya, pagava per loro vitto, alloggio e spese per la scuola dove imparavano ad essere perfette intrattenitrici con l’arte di servire il tè, la danza dei ventagli, la musica, la conversazione. Quando la geisha cominciava ad incassare i ricavi della sua attività di intrattenitrice di lusso, dopo avere fatto fortuna e dopo essersi assicurata il sostegno di ricchi protettori, doveva restituire alla okasan, con i dovuti interessi, il prestito per il suo mantenimento.
Una tappa fondamentale nella vita della dell’apprendista geisha (maiko) era il mizuage.
Il mizuage (水揚げ ricevere o dare le acque) determinava il passaggio vero e proprio da ragazza a donna, requisito indispensabile per divenire una geisha a tutti gli effetti.
Il mizuage era una tradizione che prevedeva l’“acquisto” della verginità della ragazza. Quando la “maiko” regalava agli uomini che aveva frequentato un “ekubo”, torta di riso zuccherato con una piccola fossetta rossa al centro, sessualmente allusiva, faceva capire che era pronta per il rito del mizuage. Iniziava così una vera e propria asta, con tanto di rilanci, tra i “danna”, gli uomini pretendenti e futuri protettori della geisha. Questa “donava” così la propria verginità al migliore offerente che spesso offriva somme di denaro anche considerevoli.
Si occupava di tutto la “madre”, con la collaborazione della “sorella maggiore” (onesan) della maiko in questione, dalla scelta del cliente all’organizzazione del rituale.
Oltre a vivere una vita che non avevano scelto, queste ragazze dovevano sacrificare la loro verginità. Costrette a recitare una parte, dietro la bianca maschera che dipingevano ogni giorno sul viso, non avevano via di uscita, non sapendo immaginare un’altra esistenza. Per quanto potesse essere affascinante il “mondo fluttuante” di cui facevano parte, certo non era facile accettarlo completamente. Vivevano come se fossero già morte.

Ho immaginato questa condizione di “morte” con un telo che copre il corpo della donna, bianco come la candida maschera che la geisha dipinge sul proprio viso.

Eleonora Rinaldi – Foligno, 20 marzo 2014